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Il Corniolo, quando l’abito non fa il monaco

Per il camminatore contemporaneo il Corniolo è un grazioso alberello diffuso sulle radure delle prealpi. È molto noto per le sue bacche agrodolci, fonte di sostanze antiossidanti e utilizzate per deliziosi liquori. Eppure, il Corniolo è “complice” in uno dei racconti meno allegri della storia occidentale.

L’albero del Corniolo, con le sue bacche agrodolci note per essere preziosa fonte di sostanze  antiossidanti, ha un aspetto allegro: di statura non molto alta, macchia il limitare dei boschi delle  prealpi coi suoi gialli di primavera e i suoi rossi di autunno. Visto così, è difficile immaginare cosa abbia da raccontarci.

Nessuna Iliade senza il Corniolo

Persiani, greci e romani utilizzavano il suo legno, liscio e compatto, per costruire aste di giavellotti, lance e frecce. È un materiale che gli elleni, appostati sotto le mura di Troia nel vago presentimento di dover abbandonare l’impresa, conoscevano molto  bene. E quando la geniale idea di Ulisse si diffuse tra l’accampamento, l’occhio dei soldati cadde subito sulla  distesa di alberi di Corniolo che ricopriva il monte Ida. Nonostante fosse sacro sacro ad Apollo, il legno di quel piccolo albero dalle bacche rosse doveva essere loro, il prima possibile. Per conquistare Troia, i greci dovevano lavorarlo, levigarlo e modellarlo fino a renderlo l’inganno più famoso della storia occidentale. E quando finalmente fu introdotto nelle mura troiane, il cavallo mandava bagliori rossastri che furono di ammonimento unicamente a Cassandra.

Il truce incontro con Enea

Ma il racconto del Corniolo non è ancora finito. Investe anche un altro celebre protagonista: Enea. Quando infatti, anni dopo la sua fuga da Troia, l’eroe approdò in Tracia, si imbatté nel suo legno liscio. Le sue fronde gli servivano per ricoprire un altare, perseguitato ormai dall’ossessione di ottenere il favore degli dèi. Ma non appena strappò il primo ramoscello, una macchia nera di sangue si aprì sul terreno polveroso. Incredulo, continuò a strappare, e dalla terra si alzò un gemito. Era la voce di un suo conterraneo, la voce  di Polidoro. Mandato dal padre Priamo in Tracia durante l’infuriare della battaglia, il re Polimestone tradì la sua innocenza e l’amicizia del padre: lo uccise per ottenere l’oro che aveva portato con sé, negandogli persino una degna sepoltura.  Ma come spesso accade nel mito in presenza di così efferate ingiustizie, la natura se ne fa traccia. Le frecce che colpirono il giovane corpo di Polidoro si trasformarono nei ramoscelli di Corniolo che Enea, ignaro, aveva strappato, e il corpo rimase intrappolato nel mondo dei vivi sotto le allegre vesti dell’albero stesso: l’immagine orribile della  vita umana privata della sua volontà, da cui Dante prese ispirazione per la selva dei suicidi del VII  cerchio dell’Inferno.  

Dai Greci alla contemporaneità, il Corniolo diventa Cornà

Ma per l’ignaro camminatore contemporaneo, a cui i toni imponenti della tragedia greca giungono forse soltanto come echi di reconditi insegnamenti scolastici, il Corniolo resta un grazioso alberello allegramente diffuso sulle radure di latifoglie del territorio prealpino, dove cresce tenacemente e senza bisogno di particolari cure. Lontano dall’immaginario a cui l’avevano destinato i poeti greci e latini, cresce spontaneo anche in Mesolcina, dove la cantina Boldini ne raccoglie le preziose bacche ricche di vitamine per macerarle in grappa e ottenere  l’agrodolce, rossissimo Cornà.

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